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Le pecore e il pastore di Andrea Camilleri, ovvero le oscillazioni della disidentità

16 Aprile 2024

di Giampaolo Lai. (da “Tecniche Conversazionali“, Anno XIX, n° 37 – Aprile 2007). Articolo tratto dalla newsletter “Parole – Argomenti di Psicoterapia e Conversazionalismo” pubblicata in data 29/08/2013

L’identità è la risposta che una persona dà alle due domande: “chi sono?” e: “che cosa voglio?” Tutte le risposte che possono essere raccolte si situano in un continuum che, da un estremo, nel quale le risposte denotano un oggetto unico e assoluto del mondo attuale immutabile nel tempo –  e allora parliamo di identità assoluta o continuante –  va all’estremo opposto, nel quale le risposte denotano oggetti relativi, variabili, incostanti, doppi, multipli, sempre nel mondo attuale – e allora parliamo di identità relativa o identità multipla. Nel continuo tra identità assoluta e identità relativa incontriamo la disidentità. La disidentità è la risposta di una persona alle due domande del “chi sono?” e del “che cosa voglio?” in termini tali da denotare un oggetto suscettibile di eseguire, in un mondo possibile, salti finzionali simultanei (disidentità sincronica) o successivi nel tempo (disidentità diacronica) da una identità assoluta a suoi replicanti pur assoluti fin che sono.

Un esempio di disidentità diacronica, in cui cioè due identità, o due disidentità, si succedono nel tempo, lo troviamo in Paolo di Tarso, calato, prima dell’incontro sulla via di Damasco, nella identità assoluta di persecutore dei cristiani, e che, dopo la caduta da cavallo, salta sulla identità altrettanto assoluta, anche se di verso opposto, di apostolo di Cristo. Anche i salti reversibili dal Dr. Jekyll a Mr. Hyde avvengono nel mondo della disidentità diacronica. Mentre la contemporaneità di Dorian Gray nelle sue scorribande notturne e del suo ritratto immobile in soffitta parla piuttosto per la disidentità sincronica, per la compresenza di due disidentità, di una identità e del suo replicante disidentico sincronico. Altri eventi di disidentità ce li fornisce il ragazzo che porta a casa un libretto con un buon curriculum di studi universitari, quando fuori di casa lavora in una copisteria senza avere mai alcun contatto con l’Università. O l’anziano signore che in una città è il marito di Anna mentre in un’altra città, o nella medesima, è il marito di Maria. Ancora, l’adolescente Luisa, docile e dolce, che loda il cibo della madre mentre è a tavola e che quando immediatamente dopo corre in bagno, lo vomita con strazio e disprezzo.  

Se l’identità assoluta e l’identità relativa, multipla, si situano nel mondo attuale, allora seguono la logica della contingenza dei mondi reali. Se si situano nei mondi possibili, allora seguono la logica finzionale dei mondi possibili.

A prima vista i salti, nel mondo attuale, da una identità assoluta a una delle molteplici identità doppie o multiple, come i salti da una disidentità a altri replicanti disidentici, nei mondi possibili, sembrerebbero essere illimitati. In verità, per i cambiamenti nel mondo attuale da una identità singola assoluta a una identità doppia o multipla, vengono posti dei limiti precisi e invalicabili dal corpo che ospita le contemporanee o successive disidentità, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della reversibilità delle disidentità da una disidentità raggiunta a una precedente.

Un esempio particolarmente interessante di non reversibilità di due disidentità, di impossibilità di tornare da una disidentità acquisita alla disidentità di partenza, per via dell’ostacolo invalicabile della natura del corpo, ci è offerto dal saggio narrativo di Andrea Camilleri, Le pecore e il pastore, Sellerio editore, Palermo, 2007. L’inchiesta di Camilleri parte da una nota a piè di pagina di un libro: «Nella lettera del 16 agosto 1956 l’Abbadessa sr. Enrichetta Fanara del monastero benedettino di Palma Montechiaro così scriveva a Peruzzo: “Non sarebbe il caso di dirglielo, ma glielo diciamo per fargli ubbidienza […] Quando V.E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvare la vita del pastore. E il Signore accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore”.» Con la abituale sapienza, che molti di noi lettori abbiamo imparato a apprezzare in ben altri contesti finzionali, Camilleri conduce qui, con il solo, peraltro pesante, indizio della nota del libro, un’indagine appassionante che si snoda su tanti aspetti della Sicilia, attuale e lontana, intrecciandosi con le vicende locali di Giuseppe Tomasi di Lampedusa i cui antenati risalgono ai fondatori del monastero di Palma Montechiaro e con temi universali come quelli della fede e del rito, della devozione e del sacrificio, della corporeità e della spiritualità, fino al poroso confine tra mortificazione della carne e suicidio.

Il lettore troverà, specialmente nella seconda parte del saggio di Camilleri, una ricostruzione appassionata delle drammatiche condizioni che consentirono l’evento pieno di orrore, di dieci giovanissime suore le quali, in termini di fede e religione, per salvare la vita del loro vescovo ferito a morte [il “Peruzzo” destinatario della missiva riportata], si lasciarono morire di fame e di sete, o che, in termini laici, si suicidarono credendo in tal modo di  salvare il loro vescovo. Il quale, per onor di cronaca, in effetti si salvò.  

A noi qui sia consentito di ricondurre l’evento di orrore e di dramma consumatosi dentro le mura del convento in un  clima surriscaldato ai limiti, come si esprime Camilleri, tra la «tensione mistica» e la «isteria collettiva», dentro la logica arida e astratta delle vicende della identità e delle disidentità.

L’identità assoluta di una giovane suora cattolica si definisce nei termini di amore e vita. Amore verso Dio e suo figlio Cristo e verso tutte le persone, sorelle in Cristo, e amore per la vita di ciascuno, compresa la propria, dono divino. In risposta alle nostre due domande di partenza, quindi, quanto al “Chi sono” ogni suora avrebbe potuto rispondere: “Io sono una creatura di Dio” e quanto al “Che cosa voglio” avrebbe risposto: “Voglio che sia fatta la volontà di Dio”. In queste due risposte, in termini teologici risalta la sublime abnegazione della creatura religiosa che esiste e vuole in quanto rinnega la propria limitatezza contingente e i propri erronei voleri, identificandosi nel creatore: “Tota tua ego sum”. La creatura religiosa considera dono di Dio tutta sé stessa, nel suo pensare, nel suo sentire, nel suo essere un corpo vivente. Ed ecco che la sua drammatica risoluzione: “Tota tua ego sum”, mistero mistico della teologia, diventa, nei termini della logica, il paradosso della disidentità, di una persona che è in quanto non è, che esiste in quanto si rinnega, che è sé stessa in quanto è alienata in un’Altra. L’alienazione in Dio delle giovani religiose, sorrette dalla fede, mette infatti in assoluta evidenza il loro oscillare, ciascuna, tra due persone disidentiche: la persona naturale e la persona mistica. Ma è il corpo che scandisce i rintocchi del pendolo dall’una all’altra disidentità, da quella terrena a quella celeste. Il corpo, il corpo carnale, con i sui appetiti, i suoi desideri, le sue vanità, diventa il cardine della perdizione per la disidentità celeste, ma anche il cardine della salvezza quando, attraverso la mortificazione dei sensi, come il digiuno e l’abnegazione del corpo dentro le vesti impermeabili, crocefigge la carne peccaminosa della disidentità terrestre, in un reiterato, incessante, continuo, tentativo di purificazione.

Ora, la mortificazione, criterio dell’esistenza quotidiana di ogni monastero cattolico, se, da una parte, è un atto di amore della giovane religiosa verso Dio dal quale si ingegna di non venire distratta dal corpo del peccato, dall’altro assume un valore blasfemo in quanto porta aggressione e disprezzo per un dono che viene da Dio: il corpo vivente. Le suore religiose oscillano da allora, dall’introduzione della mortificazione, ovvero dall’ingresso in monastero, fra una disidentità costruita sull’amore verso Dio e sul conseguente amore per il corpo vivente, dono di Dio, a una disidentità costruita sul disprezzo del proprio corpo nella mortificazione che è blasfemia contro Dio. Non solo, ma oscillano fra una disidentità alimentata dalle passioni dell’amore e della vita a una disidentità che si nutre della passione della crudeltà e della morte.

Ci interessa ora ricordare che l’Abbadessa, cattiva maestra, in occasione della ferita mortale al Vescovo, fa leva non sulla passione di amore e di vita delle proprie allieve ma sulla loro passione di crudeltà e di morte, invitandole o accompagnandole, alla mortificazione estrema, al sacrificio del proprio corpo: «questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvare la vita del pastore. E il Signore accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore».

Non è difficile immaginare le oscillazioni in ogni giovane suora tra la disidentità del corpo di vita con le proprie esigenze di cibo e di acqua e la disidentità dell’anima disincarnata che si offre per la salvezza del Vescovo. Ma proviamo a scrollarci di dosso, per un momento, il dramma di queste dieci giovani vite, per tornare a interrogarci sul tema della disidentità. Ci era sembrato di poter pensare che le oscillazioni delle disidentità fossero illimitate nelle loro escursioni e reversibili quali enti di ragione possibili. Ma le vicende delle suore fanciulle ce ne ha mostrato i limiti invalicabili. Quando intervengono le leggi della necessità del corpo naturale il pendolo della disidentità interrompe il suo ritmo leggero e si immobilizza a un estremo senza ritorno.  

Le pecore e il pastore di Andrea Camilleri, ovvero le oscillazioni della disidentità
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